Il melanoma è purtroppo un tumore sempre più diffuso e aggressivo, ma un nuovo studio apre le porte a strategie terapeutiche innovative per contrastarlo.
I numeri sono drammatici e inequivocabili. Il melanoma rappresenta il 5% delle neoplasie che colpiscono la cute e, stima alla mano, la sua incidenza è raddoppiata negli ultimi dieci anni. Stiamo parlando di un tumore che deriva dalla trasformazione cancerosa dei melanociti (alcune delle cellule che formano la pelle), raro nei bambini ma piuttosto diffuso negli adulti, con il picco delle diagnosi registrato nei soggetti fra i 45 e i 50 anni di età.
Per fortuna, la scienza negli ultimi anni ha fatto passi da gigante, anche se il percorso per debellare la malattia è ancora lungo e tortuoso. Gli scienziati del Massachusetts General Hospital, in particolare, hanno sviluppato un metodo basato sull’intelligenza artificiale in grado di prevedere quali individui hanno maggiori probabilità di incorrere in una recidiva e, quindi, necessitano di un trattamento aggressivo. Lo studio, pubblicato su Npj Precision Oncology, accende una nuova speranza di fronte a una malattia che tende a metastatizzare con molta rapidità.
Ma la vera notizia che ha attirato i riflettori del mondo scientifico in queste ore, arriva da un’équipe di ricercatori della Queen Mary University, del King’s College di Londra e del Francis Crick Institute, i quali hanno identificato una proteina che permette alle cellule tumorali del melanoma di cambiare la forma del nucleo, e quindi di migrare e diffondersi in tutto il corpo. In uno studio condotto dalla professoressa Victoria Sanz Moreno e dal dottor Jeremy Carlton e pubblicato su Nature Cell Biology si rileva che le cellule cancerose aggressive presentano alti livelli di una proteina chiamata LAP1, e che l’aumento degli stessi è associato a una prognosi infausta.
Nello specifico, i ricercatori hanno valutato la capacità delle cellule più aggressive e di quelle meno aggressive di migrare attraverso i pori in una membrana artificiale. Le prime provenivano da un sito di metastasi in un paziente con melanoma; le seconde, invece, dal cancro primario dello stesso soggetto. Ebbene, l’imaging condotto dopo gli esperimenti di migrazione ha mostrato che le cellule aggressive erano in grado di muoversi attraverso i pori in maniera più efficace, formando rigonfiamenti ai margini del loro nucleo, detti “bleb”. Dalle analisi genetiche, inoltre, è emerso che le cellule aggressive che formavano delle macchie contenevano nell’involucro nucleare livelli più alti di proteina LAP1.
La proteina LAP1 allenta il legame tra l’involucro nucleare e il nucleo sottostante, consentendo al primo di gonfiarsi e di formare macchie che rendono il secondo più fluido. Ne consegue che le cellule tumorali potrebbero premere attraverso le lacune che normalmente le fermerebbero. Quando poi i ricercatori hanno bloccato la produzione di LAP1 e indotto nuovamente le cellule aggressive a migrare attraverso i pori, sono giunti alla conclusione che le cellule non riuscivano a formare molte macchie e avevano una minore capacità di premere attraverso le lacune. Non solo: l’équipe ha anche appurato che i livelli di LAP1 erano maggiori nei campioni di tessuto prelevati dai siti metastatici.
Tirando le somme, i pazienti con alti livelli di LAP1 nelle cellule attorno al bordo del cancro primario avevano un melanoma più aggressivo e una prognosi peggiore. Al momento non esistono farmaci in grado di colpire direttamente la proteina in questione, ma i ricercatori si sono messi subito al lavoro per svilupparli. Si tratta di un primo, importante passo verso lo sviluppo di quelle nuove modalità terapeutiche indispensabili per contrastare una patologia sempre più letale.
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